"Fausto de Marinis"

Nicola Micieli

Un argonauta della deriva dell'essere: ecco la definizione immaginosa, certo, ma rivelatrice che potremmo dare di Fausto de Marinis, pittore e incisore abituato a navigare nelle zone di confine del reale, laddove si dissolvono le figure leggibili del mondo fenomenico e subentrano quelle, indecifrabili, del mondo sommerso ove tutto è mobilità metamorfotica, ininterrotta fluenza.

Lettera alla Luna del 16 febbraio 1991
De Marinis si muove nella dimensione virtuale della mente, infrangendo ogni barriera spazio-temporale, vanificando le distinzioni empiriche tra la materia e l'immateriale, tra la realtà e il sogno, tra il qui della condizione esistenziale, con il suo carico di contrastanti necessità, e l'altrove della prefigurazione metafisica che schiude il regno della sconfinata libertà.
Il concetto fisico di confine sottende, ovviamente, l'analogo del limen psichico, il filtro osmotico dei diversi stati della coscienza.
E' questo il presupposto teorico d'un surrealismo non visionario, assai vicino al flusso coscienzale più che allo stato onirico. E vorrei dirlo pulsionale e in certa misura automatico, nel senso di una scrittura gestuale organica al linguaggio incisorio di de Marinis.

Per questo artista, difatti, la lastra è una sorta di schermo radiografico delle "illuminazioni", diremmo con Baudelaire, e con Bergson delle energie che attraversano il campo visivo, registrate quasi sismograficamente in nuclei e filamenti, in volute, in scie e impronte, in onde e spirali e simboli ideografici: cifre di un'arcana scrittura in cui ognuno può riconoscere i depositi delle più diverse culture, le tracce di una memoria collettiva che risale alle scaturigini della storia.
E come scrittura psicografica, per quanto connotata per simboli ricorrenti in senso ermetico, sono da leggersi essenzialmente le gremite partiture di de Marinis. Esse manifestano il desiderio di una comunicazione che vorrei dire cosmica, presupponendo il superamento dei codici omologati, le parole e le immagini, i simboli matematici di cui gli uomini si servono per comunicare e serbare memoria del loro passaggio.
I destinatari del "messaggio" di de Marinis paradossalmente non siamo noi che tentiamo di leggere i suoi criptogrammi. O meglio: lo siamo ma solo nella misura in cui riusciamo a calarci simpatericamente nella fluenza della partitura, rendendoci in tal modo partecipi di un'intenzione comunicativa che vorrei dire panica, ossia da villaggio non più globale, ma cosmico appunto.

Lettera alla Luna del 4 marzo 1991
Non a caso si intitola "Lettere alla Luna" la suite, che a me pare di straordinaria qualità grafica nella sua ricchissima tipologia segnica e nell'animazione pervadente della partitura, incisa all'aquaforte e all'acquatinta nel 1991 quale ideale portolano e diario di bordo d'un argonauta della deriva dell'essere. Ogni tavola è una pagina brulicante di segni: da una parte mappa intuitiva d'un possibile approdo, cui puntare lo sguardo della polena nell'oscura navigazione; dall'altra ansiosa trascrizione grafica dei luoghi attraversati e degli eventi che accompagnano il periglioso viaggio.
Lettere alla luna! Come non pensare al leopardiano pastore errante dell'Asia? E al mare dell'essere: all'idea dell'infinitudine in cui naufragare e perdersi, per attingere la ragione ultima dell'essere?

So che siffatte suggestioni porterebbero lontano, forse a una rarefazione filosofica che ci farebbe perdere la densità pur presente, direi la pregnanza dell'umana passione che scorgo fervida e intensa nelle pagine di de Marinis. E dunque ritorno, come provvisorio approdo, al senso fisico e direi persino tattile, ossia percettivo della scrittura grafica come a un sicuro referente di questa ricerca incisoria cui sembrano concorrere il pensiero e l'azione, in una sintesi poetica non facilmente riducibile alla raccorciata eloquenza di una formula.

 
Lettera alla Luna del 27 marzo 1991